Cemento e capannoni il male del Veneto che viene da lontano
Pubblicato on 27/Lug/2017 in NewsDal Corriere delle Alpi del 26 luglio 2017
Già dieci anni fa la denuncia in uno studio dello IuaV ma le radici sono profonde: l’estate del 1972, per esempio
Cemento e capannoni il male del Veneto che viene da lontano
di Francesco JoriBarbarie, e basta. «Ma a cosa serve la terra, se non posso costruire? », è il testuale sfogo di un imprenditore veneto dell’edilizia, nel corso di uno dei tanti dibattiti sulla cementificazione che ha trasformato l’esemplare paesaggio di un’intera regione in un groviglio di case & capannoni tra i più caotici e devastanti d’Italia. È un male che viene da lontano, ma che non accenna a fermarsi, come segnala il caso della Bassa padovana esaminato in un precedente articolo. Lo segnalava già dieci anni fa uno studio dello Iuav, l’Istituto universitario di architettura di Venezia, denunciando “l’incapacità di governare lo sviluppo industriale e commerciale, l’inadeguatezza delle misure atte a controllare la diffusione insediativa nelle zone agricole, l’assenza di politiche urbane… Le fabbriche e i capannoni, la proliferazione delle zone industriali e commerciali, l’urbanizzazione spalmata sul territorio e l’esplosione del trasporto su gomma, hanno portato allo stravolgimento del paesaggio e dell’ambiente”.
Ma c’è un significativo precedente ben più retrodatato: un caso di scuola, lo si potrebbe definire. Estate 1972: approfittando (come ancor oggi accade) delle calure e delle assenze estive, il consiglio comunale di Asolo tenta per la terza volta di varare una variante al piano regolatore, che prevede di triplicare l’anagrafe della splendida cittadina, portandola da 6 mila a 18 mila abitanti nel giro di una quindicina d’anni. Tradotto: un’autentica vegetazione di cemento armato attorno al gioiello del centro storico, inclusi 1.100 posti letto suddivisi tra alberghi e bungalow; e per non farsi mancare niente, tre mega parcheggi incastrati sui fianchi della collina. La punta d’iceberg di una lebbra che già allora aveva cominciato a devastare il Veneto, come denunciava all’epoca un grande innamorato di questa terra come Bepi Mazzotti, ricorrendo al termine “scempio”; e paragonandolo all’insipienza del contadino che per far legna salga sull’albero e cominci a tagliare sotto di sé. Un’assurdità palese: che invece è successa, e sta continuando a succedere, declinandosi in due varianti egualmente mefitiche. Da un lato quella produttiva, con i capannoni cresciuti in modo disordinato nel territorio, germinando dai garage di casa; con il risultato di far proliferare una media di qualcosa come quattro tra aree industriali e artigianali per comune, e in cui oggi l’unica traccia di esistenza è il cartello appeso alle pareti esterne con su scritto “vendesi” o “affittasi”. Dall’altro quella commerciale, con i mega-iper-mercati che Marc Augé ha immortalato come “non luoghi”; diversi dei quali adesso in piena crisi, e ridotti a una malinconica sommatoria di solitudini, dove masse di fedeli del consumo vanno a officiare i riti domenicali di sempre più striminziti acquisti, o praticare una sorta di voyeurismo da vetrina. Estreme conseguenze di un trauma antico, che si può datare già negli anni Sessanta del secolo scorso, e che ha visto un po’ alla volta erodersi quel legame affettivo con la terra ( “mater tellus”, la chiamava Andrea Zanzotto) che faceva parte delle stesse radici venete, e che nei secoli aveva ispirato una sapiente politica del territorio.
Il degrado è sotto gli occhi di tutti, basta girare a caso per la regione per toccarlo con mano. Risalendo la valle del Chiampo, per esempio: che Silvio Ceccato, geniale cibernetico di Montecchio Maggiore trapiantato a Milano, ricordava in gioventù come una sorta di Eden, poi ridotto a puteolente cajenna dal virus delle concerie. O addentrandosi anche a caso in quella che si era guadagnata il logo di Marca Gioiosa, la provincia di Treviso oggi trasformata in una fungaia di sbrecciate cattedrali industriali e commerciali nel deserto dei valori. La Regione ha introdotto una legge per disciplinare la cementificazione selvaggia, così come altre. Ma uno studio del Centro ricerche sul consumo di suolo spiega che è più fumo che arrosto: “Scorrendo i contenuti di queste norme si verifica la loro inefficacia nel breve e nel medio periodo; esse non mettono in discussione le previsioni gonfiate dei piani urbanistici comunali, ma si limitano a prospettare riduzioni per i futuri piani”.E Andrea Arcidiacono, vice presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, aggiunge che «la sensazione è che le Regioni, nel legiferare sul consumo di suolo, abbiano prestato eccessiva attenzione alle sollecitazioni di grandi gruppi finanziari, preoccupati di perdere asset in termini di terreni solo virtualmente edificabili, ma su cui la crisi aveva svelato la mancanza di concrete possibilità attuative».
La festa finirà quando i commensali saranno sazi, o sarà rimasto ben poco da mangiare. Di nuovo torna in mente come paradigma quella Asolo dalla quale il poeta Robert Browning aveva ricavato il neologismo “asolare”, inteso come alitare del vento, respirare. E che si era tentato di ridurre a una sorta di ottavo nano veneto, protagonista non di una favola ma di un incubo. (Fine – La precedente puntataè stata pubblicata il 20 luglio)
I numeri di un’aggressione senza fine
Il Veneto è da tempo tra le regioni più edificate d’Italia, specie sul piano degli investimenti nell’edilizia industriale e commerciale: già negli anni Settanta il volume complessivo di fabbricati non residenziali aveva raggiunto quello delle abitazioni (circa 176 milioni di metri cubi); nel decennio successivo la tendenza si è accentuata, e negli anni Novanta il volume complessivo edificato era stato di 179 milioni di metri cubi per magazzini, capannoni e uffici, contro i 101 delle case. A fine secolo, l’ammontare di fabbricati non residenziali progettati in Veneto rappresentava il 18 e mezzo per cento della produzione complessiva italiana, livello inferiore alla sola Lombardia. Con un addensamento in particolare nell’area centrale della regione, vale a dire il nucleo dell’area metropolitana concettuale che si vorrebbe estesa all’intero Veneto, magari con punte in Friuli, almeno fino a Pordenone, considerando l’omogeneità degli insediamenti. Tendenza proseguita negli anni Duemila col proliferare di capannoni oggi in buona misura dismessi.