Dopo l’abuso del cemento l’industria veneta riusa
Pubblicato on 10/Ott/2017 in NewsDal Corriere delle Alpi del 9 ottobre 2017
Dopo l’abuso del cemento l’industria veneta riusa
Uso, abuso, disuso. Riuso? La parabola di un Veneto disastrato sta racchiusa in questo scioglilingua, concluso con un punto interrogativo che incombe sul nostro presente, ma ancor più su quello delle prossime generazioni. Dalle precedenti, abbiamo ereditato un territorio da manuale, progettato in perfetta sintonia con l’ambiente da ingegni del valore di Palladio. L’abbiamo stravolto subordinandolo agli interessi contingenti, in una per nulla santa alleanza tra sindaci votati all’incasso del momento e disinvolti imprenditori con il culto del profitto hic-et-nunc. La crisi economica, ma anche da eccesso di consumo, sta disseminando città e campagne di relitti abbandonati su cui campeggia come una lapide la scritta “affittasi” o “vendesi”, e di catafalchi di cemento dismessi, sfregio perenne al paesaggio. Finalmente, ci affacciamo alla fase quattro: era ora. Va in questa direzione l’iniziativa promossa venerdì scorso dalle associazioni industriali di Treviso e Padova sul recupero di territorio, dove sono stati prodotti due numeri come macigni: tremila capannoni abbandonati, un capitale improduttivo pari a 13 miliardi.
Un handicap che viene da lontano: nei soli anni Novanta, in Veneto sono proliferati 179 milioni di metri cubi tra magazzini, capannoni e uffici; e l’ammontare di fabbricati non residenziali era pari al 18 per cento della produzione complessiva italiana, quota seconda solo a quella della Lombardia. All’inizio degli anni Duemila, Nico Luciani della Fondazione Benetton segnalava (inascoltato…) che nei vent’anni tra il 1961 e il 1981 avevano cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse capitato nei due millenni precedenti. Un’autentica febbre del mattone, che ha fatto del cemento armato un cemento amato. Come tutte le passioni, pure questa sembra evaporare. Lo segnalano alcune svolte significative: ad esempio, il “ciclo del bello” promosso dai giovani dell’Associazione costruttori, per un’edilizia che si ispiri all’esemplare lezione delle ville venete; ed è veneto uno dei massimi protagonisti di una linea di innovazione nel costruire il nuovo ma anche nel recuperare l’esistente, il vicentino Aldo Cibic. L’incontro trevigiano, accanto ai numeri da epigrafe funeraria prima citati, ne ha proposto uno di incoraggiante: in regione ci sono già oggi 1.100 ettari edificabili che sono ritornati area verde in quasi metà dei Comuni, grazie alla scelta dei rispettivi sindaci di privarsi dell’Imu sui terreni, e dei proprietari di rinunciare alle cubature.
Un gesto che sta aprendo la strada alle cosiddette varianti verdi, ma che riveste anche una precisa valenza economica: perché riattiva almeno in parte un capitale altrimenti condannato al degrado. Anche su questo versante l’appuntamento degli imprenditori trevigiani e padovani ha messo sul tavolo un numero di assoluto rilievo: se si recuperasse solo il 10 per cento dei capannoni in disuso, si rimetterebbero in circolo 1,3 miliardi di euro, quasi l’1 per cento del Pil veneto. La giornata del Fai, dedicata alla bellezza, cade a proposito per sollecitarci a non tradire l’alta lezione del passato. Ma perché questo diventi possibile, occorre un ingrediente di base, sottolineato a più riprese nell’incontro trevigiano: la cultura. “Serve una rivoluzione culturale prima che industriale” (Bruno Barel, tra i maggiori esperti nella normativa); “non basta una legge a determinare il cambiamento, deve aggiungersi una cultura nuova” (Maria Cristina Piovesana, presidente degli industriali trevigiani).Norme e finanziamenti ci sono già, anche se da implementare; quel che serve è un rapporto col territorio che lo consideri come preziosa risorsa non rinnovabile, anziché come albero della propria personale cuccagna su cui arrampicarsi. Altrimenti, ai metri cubi di cemento se ne aggiungeranno altri di parole. Non meno devastanti.