Ecomostri a Nordest, chi paga il conto
Pubblicato on 22/Ago/2017 in NewsDal Corriere delle Alpi del 21 agosto 2017, l’opinione
Ecomostri a Nordest, chi paga il conto
Scorrono malinconici i titoli di coda sul Cineplex, primo multisala del Padovano inaugurato in pompa magna nel 1999: in questi giorni va all’asta giudiziaria, chi lo vorrà se lo porterà a casa con 3 milioni e mezzo, quando ne valeva quasi cinque volte tanto. Ma chi lo vorrà? Come riutilizzare quello scatolone da 25mila metri quadri? Alla fine, sarà un’altra lapide che andrà ad aggiungersi alla Spoon River di cemento in cui si sta trasformando un territorio largamente devastato: come ben documenta un accurato “Atlante dei classici padani”, viaggio dell’orrore tra ecomostri, centri commerciali e scempi vari. Dal Piemonte al Friuli-Venezia Giulia, ben 1.141 testimonianze di «epicentri del disastro psicourbanistico», come li definiva qualche tempo fa un’ampia inchiesta di Internazionale.
Il Nordest è la sezione più affollata di questa discarica. Il fu-Cineplex sorge a una manciata di chilometri dal casello Terme Euganee dell’A13, dove si vorrebbe far sorgere l’ennesimo megacentro: il comune è lo stesso, Due Carrare, che rischia così di diventare un mausoleo del “caro estinto” del territorio. Perché una casistica ormai ampia documenta come spesso e volentieri gli sbandierati benefici si trasformino in disastri. Appena tredici anni fa, nel 2004, c’era la coda di auto sulla Pontebbana per non mancare ai fasti dell’apertura del mirabolante centro commerciale di Villorba, a due passi da Treviso. Oggi ci si va in punta di piedi, come a far visita a un malato terminale: restano aperti solo sei negozi, il resto è deserto. E il sindaco si arrabatta a cercare una soluzione, con l’idea di trasformare l’area in un centro sportivo indoor.
Ma non è un caso isolato: da Verona a Trieste, il bollettino delle crisi è in continuo aggiornamento. Auchan ha attuato licenziamenti a raffica, tra Mestre, Vicenza e Padova; a Udine l’ambizioso centro Friuli è di fatto dimezzato; a Pordenone l’annunciato raddoppio del Meduna non decolla; a Trieste ci sono decine di spazi sfitti nei grandi contenitori come il Giulia e il Freetime. Dovunque, intorno, c’è una sequenza di piccoli esercizi che arrancano o che sono stati costretti a chiudere.
Non è un’epidemia solo italiana. Il New York Times ha tracciato una mappa funebre con tanto di foto dei “dead malls”, centri commerciali defunti oggi ridotti a città spettrali nel deserto: al punto che Hollywood ha scelto uno di questi per girarvi alcune scene del film “Gone girl”. E oggi, su 1.200 centri censiti negli Usa, il 15 per cento risulta a rischio scomparsa. Eppur si muove, specie a Nordest dove la febbre del mattone imperversa a dispetto di un esistente già sproporzionato: nel solo Veneto ci sono 484,6 metri quadri di centri commerciali per mille abitanti, a fronte dei 150 previsti dagli standard europei; e in tutta Italia, come segnala il rapporto Ispra, negli ultimi cinquant’anni si è passati da un consumo di suolo del 2,7 per cento al 7,8, mentre la media europea è 4,6.
Ma si continua a macinare progetti: un centinaio a livello nazionale solo per i prossimi tre anni; pure qui col Nordest primatista.Un’apparente follia, perché lungi dal creare i decantati posti di lavoro, ne fa strame: come possono spiegare le famiglie delle centinaia di licenziati delle grandi catene, per non parlare della miriade di piccoli negozi falcidiati; e senza contare lo sfregio perenne inflitto al territorio con gli edifici dismessi.
Eppure c’è del metodo, in questa follia: perché comunque ci guadagnano in tanti, da chi progetta a chi costruisce, alle catene che aprono negozi per poi lasciare la gente a casa quando gli affari non girano; compresi i non pochi intermediari, leciti e pure illeciti; e gli stessi Comuni, che incamerano tasse e benefit. A rimetterci sono i cittadini, future generazioni incluse. Cui non resta che sfogarsi con la memorabile battuta di Totò: e io pago…