Il sociologo Cason : «In 25 anni la politica locale non si è mai mossa»

Dal Corriere delle Alpi del 20 agosto 2017

Il sociologo: «Ormai siamo al punto di non ritorno». «Proviamo a ripartire con lavoro e programmi per immigrati»
Cason: «In 25 anni la politica locale non si è mai mossa»

BELLUNO «Per ripopolare la provincia servono programmi seri di immigrazione supportati da servizi, lavoro e abitazioni a prezzi consoni. Ma attenzione, perché la diminuzione dei giovani e l’aumento dell’età pensionabile rischiano di far sparire il volontariato a sostegno soprattutto degli anziani».

Forte è la preoccupazione del sociologo bellunese Diego Cason per il futuro della montagna, soprattutto per il calo della popolazione nelle fasce giovanili, registrato in questi ultimi anni.  Le nuove statistiche parlano di una riduzione di circa 8 mila residenti di età compresa tra gli 0 e i 30 anni nell’ultimo decennio.«La situazione è grave, anche perché siamo al punto di non ritorno. Il calo demografico giovanile è una coda del minimo storico di natalità registrato nel 1994 e ora arriva il conto. Rispetto a questo non possiamo farci nulla. Queste prospettive erano già chiare nel 1995».

Cosa servirebbe, quindi, per evitare questa situazione?«Serve una politica organizzata di immigrazione, che accolga persone in grado di colmare questo gap. Organizzata, significa che chi arriva deve trasferirsi qui, perché non ci servono quelli che hanno un impiego in provincia, ma risiedono altrove. È necessario far crescere la natalità e il lavoro stabile, limitando la mobilità entro un raggio massimo di 25 chilometri da dove si risiede. Servono servizi pubblici e privati alla famiglia: dall’allevamento dei figli alla cura degli anziani.

Infine, bisogna prendere atto che la provincia di Belluno ha un’occupazione femminile elevatissima e che questo è dettato non solo da dinamiche economiche, ma anche dal desiderio di protagonismo del “sesso debole” che mira a fare carriera. Ci sono anche molte donne che non possono permettersi di stare a casa dopo aver partorito, perché hanno un lavoro precario, o non hanno la possibilità, perché il marito non ha un lavoro oppure sono rimaste da sole, ma ci sono anche quelle che preferiscono semplicemente lavorare. E per permettere di conciliare l’alto indice di occupazione femminile con la voglia di maternità servono strumenti per accogliere i bambini delle lavoratrici nei loro luoghi di lavoro, mentre le donne che restano a casa potrebbero tenere i bimbi delle loro colleghe lavoratrici.

Mi riferisco alle famose Tgesmutter». Le soluzioni per uscire da questa situazione, quindi, ci sono…«Sì, basterebbe copiare da chi ci sta intorno. Se c’è una rete di supporto, si può tornare ad aumentare la natalità. A San Martino d’Alpago c’è una coppia che ha deciso di occuparsi di un’azienda agricola e di un caseificio e hanno cinque figli. Questo è possibile perché i bimbi hanno la possibilità di essere accuditi dalla famiglia allargata, cioè nonni e altri parenti. Un lavoro distante e da pendolare non si concilia col fare tanti figli».

Cosa si è fatto nel Bellunese per evitare un fenomeno che era noto da anni?«In 25 anni non si è fatto nulla, pur essendo tutti a conoscenza della situazione. E anche ora non vedo nessuna azione messa in piedi dalle amministrazioni che vada in questa direzione. Eppure i soldi non mancherebbero. Penso ai fondi ex Odi: non c’è stato e non c’è, che mi risulti, alcun progetto che metta al centro questa emergenza e dei progetti per contrastarla».

Se viene meno un terzo degli attivi, significa che si ridurrà il reddito e la provincia si impoverirà?«La carenza degli attivi è un’emergenza di questa provincia che porterà a un impoverimento del territorio. Un conto è il turismo e il lavoro stagionale, un conto sono le manifatture aperte tutto l’anno. Anche le rimesse degli immigrati non restano qua e non producono quindi ricchezza per questo territorio».

Lei parlava di far venire gli immigrati. Ma ora il clima non è così favorevole per questa operazione. «Tutti si concentrano sui rifugiati, ma non si tiene conto del calo dell’immigrazione e dell’aumento dell’emigrazione che è triplicata in questi sei anni. E questo è un fenomeno ancora più preoccupante: i nostri giovani migliori se ne vanno via sempre più spesso a trovare occupazione a Trento e Bolzano, aumentando il gap concorrenziale.

I nostri vicini passano con la rete a strascico e se li portano via perché non danno lavoro precario, ma li fidelizzano. Quello che abbiamo a nostro favore è che qui, rispetto all’estero, la qualità della vita è buono, ma servono lavori di qualità. Purtroppo, invece, abbiamo una struttura produttiva che non sa dare risposta alle competenze elevate».

Con gli anziani va meglio?«Per gli anziani la situazione è ad oggi piuttosto buona, i servizi dell’emergenza per le situazioni gravi ci sono e anche il tessuto per i servizi intermedi come il volontariato funziona. L’Usl spende circa 140 milioni di euro per le politiche sociali ogni anno. E di questi 100 milioni sono a favore degli anziani (80%), mentre per i giovani le percentuali sono a una sola cifra».

Quindi, malgrado l’aumento degli anziani, possiamo stare tranquilli?«Assolutamente no. Anche gli anziani si vedranno ridurre la quantità di servizi: il corpo centrale del volontariato era formato da persone che andavano in pensione a 50-53 anni, e a breve l’età salirà a 67 anni e quindi siamo destinati a perdere metà degli operatori.

E poi c’era l’altra fetta di volontariato composta da gente che lavorava, ma aveva del tempo libero da dedicare, ma anche questo sparirà. E allora quel volontariato, che era una costola importante su cui si reggevano i servizi sociali, sparirà a vantaggio dei servizi a pagamento. E non possiamo sperare che chi arriverà qui ex novo entri in questa rete perché avrà altri problemi prima da risolvere».

Paola Dall’Anese