Festival filosofico di Treviso: Latouche e la società migliore

Dal Corriere delle Alpi del 07 e del 10-03-2017

L’economista e filosofo francese apre questa sera a Treviso il ciclo di incontri
Dalla crisi a un nuovo modello di vita che rispetta l’uomo, la natura e il futuro

Latouche e la società migliore – dalla decrescita alla a-crescita

A lezione di “decrescita felice”. Serge Latouche, economista e filosofo francese, massimo teorico della “abbondanza frugale”, sale questa sera in cattedra a Treviso (alle 20.30 nell’aula magna dell’Istituto Fermi) per parlare di decrescita e futuro in qualità di primo ospite del Festival filosofico “Pensare il Presente”, che diventa in questo modo anche anteprima della Fiera 4Passi 2017. Negli ultimi anni si è aperto un intenso dibattito sul termine stesso di “decrescita”, di cui Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Paris-Sud, è stato uno dei padri fondatori. Nel suo ultimo libro “La decrescita prima della decrescita” (Bollati Boringhieri) Latouche afferma che la parola ideale per definire la sua teoria sarebbe in realtà “a-crescita”, utilizzando un’A privativa che significa, principalmente, “non credere a”. Questo mutamento terminologico (dalla “decrescita” alla “a-crescita”) avrebbe lo scopo di evitare che la critica all’idea di “crescita infinita”, che rappresenta l’essenza del capitalismo, sia avvolta da un senso cupo di “regime quaresimale” o venga confusa con la semplice riduzione della produzione e dei consumi prodotta dalla crisi. La vera decrescita, per il filosofo francese, è invece necessariamente una scelta gioiosa e volontaria, improntata al rispetto dell’uomo, della natura e delle generazioni future. Gli argomenti di cui parlerà Latouche nell’incontro di questa sera anticiperanno inoltre i contenuti della dodicesima edizione di Fiera 4Passi, dal tema “Futuro al lavoro”.

La crisi dell’Europa economica, il successo elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e la dottrina di papa Francesco, per il professore francese sono tutti sintomi che hanno un’origine comune: il fallimento del mercato globalizzato («un gioco al massacro su scala globale», l’ha più volte definito), fondato sulla speranza di una continua crescita: «Si deve entrare nell’ordine di idee di costruire una società frugale, di prosperità senza crescita». In una fase storica in cui non solo in Europa si stanno affermando movimenti con posizioni molto critiche nei confronti della globalizzazione (Marine Le Pen in Francia, Donald Trump in Usa, in Italia la Lega e il Movimento 5 Stelle, Podemos in Spagna), Latouche invita i partiti tradizionali a raccogliere le esigenze reali che arrivano dal basso. «Non dimentichiamo», ha più volte spiegato «che in Italia la Lega è votata dalla classe operaia che prima votava Partito comunista, o dalla piccola borghesia che si era affidata per anni alla Democrazia cristiana. I governi ora dovrebbero pensare a come ricostruire un nuovo tessuto industriale e tornare a considerare le ricchezze paesaggistiche e ambientali come una risorsa».

Negli anni difficili della crisi economica e finanziaria, in molti hanno invece continuato a invocare politiche e ricette basate su rigore e austerità per rilanciare la crescita come unica possibilità di salvezza e speranza per il domani. «Eppure, da qualche decennio», spiega Alessandro Franceschini, organizzatore di Fiera 4Passi, «studi e ricerche hanno sempre più messo in discussione la presunta connessione tra crescita del Pil, felicità e qualità della vita. I dubbi e le critiche hanno riguardato gli effetti negativi in termini di impatto ambientale, di disuguaglianze socio-economiche, di relazioni tra generi e generazioni. Su questo cercheremo di confrontarci con Latouche». «È un onore», afferma Damiano Cavallin, direttore del Festival “Pensare il presente” che inizia questa sera, «aprire la nostra terza edizione con l’intervento di Latouche, un intellettuale di primo piano, che ha elaborato una profonda analisi critica del paradigma economico attuale, per giungere a fondare, sul piano teorico oltre che pratico e operativo, la possibilità di soluzioni alternative, più umane e sostenibili.

E lo è ancor di più per un Festival che si regge interamente sull’economia del dono, cioè sul lavoro totalmente gratuito di un piccolo gruppo di volontari, tra i quali c’è ora anche Serge Latouche»

Giorgio Barbieri

 

Dal Corriere delle Alpi del 10-03-017

Le risorse non sono infinite, bisogna uscire dal feticismo del consumo
L’umanità potrà sopravvivere solo se saprà darsi dei limiti
di SERGE LATOUCHE Di fronte ai disastri della crescita economica forsennata, universalmente riconosciuti, si è cercato di trovare un rimedio a buon mercato inventando il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992. Poiché l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di là delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi molti intellettuali e perfino gran parte degli ambientalisti. Lo sviluppo sostenibile, del quale si ritrova l’invocazione in tutti i programmi politici di destra, di centro e di sinistra, «ha solo la funzione» come dice Hervè Kempf «di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero, fondatore del World Business Council for Sustainable Development, eroe di Rio 1992, e che si presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino dell’ecologia industriale, della responsabilità sociale di impresa e dello sviluppo sostenibile si sono scoperti essere la stessa identica persona! La denuncia della truffa dello sviluppo sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la decrescita comporta e apprezzarne tutta la portata. L’espressione “sviluppo sostenibile” è un ossimoro, in realtà né la crescita né lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o durevoli: per dirla con Nicholas Georgescu-Roegen e altri, «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Perciò fare della decrescita, come hanno proposto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, sperimentata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare la parola d’ordine della decrescita, con lo scopo di denunciare la crescita e le sue varianti appena verniciate di verde in superficie. Si trattava di far ritrovare il senso dei limiti, una parola d’ordine tipica delle antiche saggezze occidentali, che possono essere fonte d’ispirazione anche per il presente (non a caso, un mio libro è intitolato proprio “Limite”). In aggiunta, occorre sempre ribadire che decrescita non significa recessione e neppure crescita negativa. La parola, quindi, non deve essere presa alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. I decrescenti, per esempio, vogliono far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che proprio la crescita economica illimitata ha distrutto: per questo è necessario porre dei limiti! L’emergere di un movimento radicale di decrescita (odi prosperità senza crescita) che propone un’alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita, corrisponde sicuramente ad una necessità che non è certo esagerato definire storica. La decrescita è diventata la bandiera che raccoglie tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a una società iperproduttivista e iperconsumista, ecologicamente e socialmente insostenibile, facendo emergere una civilizzazione molto diversa, basata su una abbondanza frugale (formula che ho discusso in un libro intitolato proprio così). Il progetto della decrescita non è né quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.). Esige piuttosto di uscire dalla religione della crescita e dell’economia, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è senza dubbio un fenomeno naturale; il ciclo biologico della nascita, dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza della specie umana, che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e animale. Gli uomini, con molta naturalezza, hanno celebrato e rispettato le forze cosmiche che garantivano il loro benessere, nella forma simbolica del riconoscimento di questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi aspetti. Il problema nasce quando si pretende assurdamente che qualcosa debba solo crescere all’infinito, in questo caso l’economia: solo l’Occidente moderno ha trasformato questa pretesa insana in una specie di religione fideistica. Nel contesto capitalistico l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non è più in simbiosi con la natura, ma promuove il suo sfruttamento senza pietà, poiché deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale, trasformando in merce il mondo intero. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale, se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per crescere. La società dei consumi è l’approdo normale di una società della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi, e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e dell’acqua). Per essere sostenibile e durevole, qualunque società deve porsi dei limiti. Ora, la nostra si vanta di essersi liberata da qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò costituisce insieme la sua grandezza, ma contemporaneamente una minaccia. Per questo tutte le società, eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla lavorare per il bene comune. Questa tensione verso il superamento di ogni limite diventa distruttiva quando viene rivolta, unilateralmente, verso l’accumulazione sistematica di merci e di denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita si intende quindi uscire finalmente da una società fagocitata dal feticismo della crescita e della merce.