Mose, il Cvn retribuiva i suoi controllori
Pubblicato on 13/Mag/2017 in NewsDal Corriere delle Alpi del 12 maggio 2017
Consulente nominato dal Magistrato alle Acque ma pagato dal Consorzio con 605 mila euro. Il caso Socostramo
Mose, il Cvn retribuiva i suoi controllori
PADOVA I consulenti tecnici del Magistrato alle Acque, ente pubblico di controllo, venivano pagati – e profumatamente – dal Consorzio Venezia Nuova, ente controllato. Succedeva anche questo in “epoca Mose” secondo quanto emerso ieri nel corso del processo per le tangenti sulle paratoie mobili. Lo ha rivelato uno dei testi della difesa (incalzato dalla Procura), l’ingegnere Armando Mammino di Treviso, nominato dall’allora presidente Mav Maria Giovanna Piva per le verifiche strutturali dei progetti, ma pagato da Giovanni Mazzacurati: 100 euro all’ora, 605 mila euro complessivamente per la sua attività fino al 2009. E il tutto avveniva alla luce del sole, almeno secondo quanto affermato dalla difesa Piva, in base a una convenzione del 1991. «Vessati sulle cerniere». L’ingegnere, chiamato dalla difesa Piva, ha riacceso i riflettori sulle cerniere Mose e il cambiamento – in corsa – delle modalità di costruzione delle stesse (da fuse a saldate, sistema per il quale Fip Mantovani possedeva la tecnologia). Mammino ha rivelato di essere stato cacciato dal presidente Mav Patrizio Cuccioletta (succeduto a Piva) per la sua contrarietà alla saldatura. «Ho sempre espresso la convinzione che fosse superiore il sistema a fusione», ha riferito in aula, «Quando arrivò Cuccioletta noi consulenti venivamo vessati perché dicessimo cose non corrispondenti alla verità. L’ingegner Fellin, che sosteneva la fusione, venne offeso da Cuccioletta che gli diede dell’ignorante. E io fui mandato via». La relazione cambiata sulle cerniere. Mammino ha dichiarato inoltre che anche il professor Gian Mario Paolucci – sostenitore del sistema a saldatura – in una prima relazione aveva caldeggiato il metodo della fusione. «La prima posizione di Paolucci», ha sottolineato Mammino, «era conforme alla nostra: ovvero la superiorità della fusione rispetto alla saldatura». A quel primo report ne seguì un secondo con conclusioni diverse. Scostramo.
Dal Mose alle bonifiche di Porto Marghera: parte dell’udienza di ieri è stata dedicata all’azienda romana Socostramo. Una societa-bluff secondo la Procura, una scatola vuota che impiegava un solo operaio per i lavori milionari di marginamento affidati al Consorzio guidato da Mantovani. Un’azienda in attività con lavori sparsi in tutta Italia, fatturati rilevanti, dipendenti e certificazioni di qualità, invece, secondo la difesa del titolare, l’imputato Erasmo Cinque accusato di aver raccolto tangenti per l’ex ministro Altero Matteoli. Il responsabile dell’Ufficio gare dell’azienda, Mauro Cuccia, teste della difesa (avvocati Marco Vassallo e Marco Pomanti) ha spiegato che nel 2003 Socostramo aveva acquisito un ramo d azienda della Bocoge (controllata Impregilo) e con essa importanti commissioni come la tangenziale dei Castelli romani (180 milioni), una superstrada in Calabria e altri cantieri tra Emilia e Lombardia. E per svolgere tale attività – ha sostenuto il consulente del lavoro Carlo Rattini – Socostramo contava una media di 15 dipendenti (oltre 40 considerando le partecipate) e noleggiava mezzi e macchinari per circa 1,5 milioni l’anno. Ben diversa la ricostruzione della Procura secondo cui la società era senza mezzi, uomini e competenze specifiche e partecipò al Consorzio con Mantovani solo perché imposta da Matteoli, compagno di partito di Cinque.
Ieri il pm Stefano Ancilotto ha rilevato che quando la società romana si associò a Mantovani per i lavori di Porto Marghera non possedeva le certificazioni per gli specifici lavori. Inoltre, ha sottolineato il pm, stando a un accordo paraconsortile tra le due aziende, il rischio di impresa era a carico di Mantovani. Quanto ai dipendenti, Socostramo schierava nel 2007 (anno clou per i lavori) un solo operaio contro gli oltre 400 di Mantovani. E tutto questo partecipando agli utili. Tenuta in Toscana. In chiusura di udienza la difesa di Lia Sartori ha depositato con l’avvocato Alessandro Moscatelli alcuni documenti datati 24 febbraio scorso che attesterebbero la vendita della proprietà toscana di Mazzacurati per oltre 700 mila euro.
Sabrina Tomè