Siamo solo figli del Mose e del crac banche popolari?
Pubblicato on 2/Ott/2017 in NewsDal Corriere delle Alpi del 01 ottobre 2017
Le priorità all’orizzonte sono il Premio Campiello e la Fondazione Nord Est
Abbandonarli a se stessi equivarrebbe a dichiarare il fallimento della “mission”
Siamo solo figli del Mose e del crac banche popolari?
di Paolo Possamai
Tra qualche giorno a Treviso i confindustriali discuteranno di capannoni. Impianti nuovi da innalzare per le aziende in sviluppo. Ma in pari tempo non eludendo la domanda su che fare delle centinaia di fabbricati resi deserti dalla crisi e spesso mai nemmeno per un giorno utilizzati. Crescita senza distruzione ulteriore dell’ambiente. In questa iniziativa, emerge l’indizio di un cambio di attitudine e di una più larga assunzione di responsabilità rispetto alla comunità territoriale e rispetto al futuro.
Cito questo esempio, solo all’apparenza marginale, per richiamare alla riflessione sui destini di Fondazione Nord Est e Premio Campiello e, più, in generale, per ragionare dei processi di autoriforma in atto in Confindustria. Che non è un patrimonio solo degli industriali associati, ma un luogo di organizzazione di interessi e, soprattutto, di pensiero con cui è indispensabile confrontarsi. Perché se è vero che l’imprenditore è cellula caratteristica del corpo sociale veneto, ne deriva che lo standing e la densità del pensiero espresso dalle sue organizzazioni di rappresentanza sono – nel bene e nel male – sigillo per l’intera comunità.
Pigliamo il tema della annunciata fusione tra le Confindustrie di Treviso e Padova. Niente soluzioni di mezza vigogna e fasulle. Fusione. Possibile solo per la generosità e la lungimiranza dei presidenti Maria Cristina Piovesana e Massimo Finco, che apertamente non pongono il tema di una loro candidatura. Che poi il presidente futuro sia padovano o trevigiano, che si chiami Enrico Carraro o Mario Ravagnan, come scritto ieri dal nostro giornale sulla base di varie fonti interpellate, o la scelta ricada su altri autorevoli esponenti con lo stemma dell’aquilotto al petto, l’essenziale è che cresca di statura il profilo della classe dirigente nel suo complesso.
Siamo solo all’inizio del processo di fusione. Dalla alleanza tra Padova e Treviso potrebbe poi per tappe progressive arrivare la condensazione su scala regionale, raggiungendo la massa critica e la capacità attrattiva necessarie per tornare a essere davvero protagonisti su scala nazionale. Una sola Confindustria veneta. Ma vedremo più avanti, intanto assistiamo al lancio del dado e al passaggio del Rubicone da parte di Piovesana e Finco.
Indispensabile perseguire disegni ambiziosi (concetto nemmeno parente di velleitario). Disegni ambiziosi riguardo agli uomini, al ruolo sociale dell’organizzazione, al suo senso. E qui viene in causa la questione del Premio Campiello e della Fondazione Nord Est. Lasciar scendere il sipario su queste due intraprese non significa solo dichiarare il fallimento di una missione o forse di non averla mai compresa fino in fondo ma, non di meno, non coglierne il valore strategico in questa attuale stagione.
Siamo noi veneti disposti a essere bollati dalla comunità nazionale come i disastrosi pasticcioni e magari truffatori delle banche popolari? Siamo disposti a essere archiviati come i protagonisti del massimo episodio di corruzione della storia della repubblica italiana? Parlo del Mose, che ci accomuna nella vulgata alle lande esemplarmente prive di senso delle istituzioni e del bene comune. E siamo disponibili a avere questa immagine pubblica in una fase storica in cui chiediamo più autonomia tramite il referendum indetto dalla Regione il 22 ottobre?
Siamo davvero precipitati nella reputazione generale, meglio essere consapevoli che le nostre gravissime disavventure sono accompagnate da risa di scherno a Roma e dalla autentica soddisfazione degli spettatori verso il presunto primo della classe segnato dallo smacco. Allora a che servono Premio Campiello e Fondazione Nord Est se non a comporre un racconto meno indecente e più veritiero della complessità e della ricchezza di questa nostra terra? Badate che non significa affatto rimuovere psicanaliticamente il motivatissimo senso di colpa per le indegne prove date di noi nelle vicende delle banche e del Mose. Ma contestualizzarle.
Perché il Veneto sa anche investire in cultura (come il Campiello testimonia). E ha bisogno di indagare sui fenomeni che lo attraversano, ponendo il Veneto in comparazione con Baviera, Lombardia, Ile de France, insomma con le altre aree di massimo dinamismo in Europa. Che è il mestiere della Fondazione Nord Est, luogo di riflessione, ai costruzione di auto-consapevolezza, di rappresentanza e rappresentazione di questa terra di confine, a Est di Milano e a Sud di Monaco per dirla con Diamanti.
Insomma, che racconto vogliamo proporre di noi e di quale identità siamo portatori? Come vogliamo essere identificati? Viviamo il tempo della nostalgia. Il rimpianto di una (presunta) età dell’oro. La nostalgia implica chiusura, arretramento, isolamento. Non parlo di sentimenti individuali, ma di un’attitudine largamente diffusa nel nostro Paese e in parte cospicua del suo ceto dirigente. Il libro postumo di Zygmunt Bauman, uscito da qualche giorno per Laterza, è intitolato “Retrotopia”: insomma potremmo dire con lui che avanziamo guardando costantemente nello specchietto retrovisore quel che abbiamo lasciato alla nostre spalle. Abbiamo invece necessità di assumere e praticare auto-consapevolezza: l’Eldorado non è esistito mai, il presente che viviamo lo abbiamo conquistato, i tanti nodi che avviluppano il nostro futuro vanno chiamati per nome e non possono elusi. Vale per l’Italia, così come per il Veneto.